IL TRIBUNALE 
 
    Ha emesso la seguente ordinanza. 
    1. Come premessa di fatto  va  dato  atto  che  l'Amministrazione
provinciale di Napoli depositava, in data 16 settembre 2010,  ricorso
di fallimento nei confronti della Cera Fish  s.r.l.  a  socio  unico,
avente sede legale nel circondario di questo Tribunale, asserendo  di
essere  creditrice  della  stessa  per  l'importo  di   € 930.423,97,
maturato a seguito della procedura di concessione del contributo  per
la realizzazione di un impianto  di  allevamento  di  specie  ittiche
marine (determinazione n.  8847  del  10  set.  2004,  relativa  alla
concessione n. 6/4.22 del 26 agosto 2004 P.O.R. Campania 2000/2006  -
Misura 4.22 - «Creazione di  nuovi  impianti  per  la  produzione  di
specie ittiche pregiate ad  alto  valore  commerciale  ivi,  compresi
molluschi e crostacei in ambiente marino o in terra ferma»). 
    Detta procedura, generata da specifica istanza  della  Cera  Fish
s.r.1., prevedeva nel relativo progetto  non  solo  la  realizzazione
dell'impianto  (che  si  appurava  essere  stato   completato),   ma,
ovviamente, la messa in funzione dello stesso.  Attesa  l'inerzia  su
tal ultimo punto, l'Amministrazione provinciale provvedeva piu' volte
a richiedere alla societa' beneficiaria di  attivarlo  concretamente,
pena la revoca del finanziamento. 
    Nulla mutando, la ricorrente aveva necessariamente dato corso  al
procedimento di revoca del  contributo  erogato,  attivando  regolare
contraddittorio,  dal  quale  era  emersa,   per   ammissione   della
beneficiata, l'«assoluta  impossibilita'  di  mettere  in  esecuzione
l'impianto». 
    Al riguardo, infatti, la Cera Fish s.r.l. nel  prospettare  detta
circostanza e nell'evidenziare all'Amministrazione concedente di aver
avviato un contenzioso nei confronti delle societa' alle quali  aveva
subappaltato la realizzazione dell'impianto, richiedeva di sospendere
la procedura di revoca  del  contributo  sino  alla  definizione  del
giudizio. 
    Considerata la propria estraneita' al rapporto tra la  Cera  Fish
s.r.l. e le sue appaltatrici e rilevato che obbligata  nei  confronti
dell'Amministrazione provinciale era la sola societa' beneficiata, la
quale appariva chiaramente  inadempiente,  la  concedente,  anche  in
considerazione della scadenza  della  programmazione  dei  fondi  POR
2000-06 che le impediva di tenere  in  corso  i  procedimenti  ancora
pendenti, non aveva potuto far altro che richiedere  la  restituzione
del contributo, pari a € 859.403,95 oltre interessi come prescritti. 
    La Cera Fish s.r.l. invece di  procedere  alla  restituzione  del
contributo adiva, ex art. 700 c.p.c.,  il  Tribunale  di  Napoli  per
ottenere la sospensione del provvedimento di  revoca:  detto  ricorso
era  rigettato  e  l'Amministrazione  provinciale,   a   sua   volta,
richiedeva ed otteneva decreto ingiuntivo, opposto  dalla  Cera  Fish
s.r.l., poi munito della provvisoria esecuzione. 
    Accertata l'inutilita' di una procedura esecutiva immobiliare nei
confronti della Cera Fish  s.r.l.,  non  risultando  proprietaria  di
alcun immobile, l'Amministrazione provinciale, ritenendo  pretestuose
le  difese  della  stessa,  presentava,  come   detto,   ricorso   di
fallimento, avendo la Cera Fish s.r.l. ceduto una parte considerevole
delle proprie attivita' a terzo soggetto,  «La  Cozza  s.r.l.»,  dopo
aver ricevuto la notifica della determinazione dirigenziale di revoca
del contributo (e  nel  corso  della  procedura  cautelare  d'urgenza
teste' citata). 
    All'uopo, in questa  sede,  quanto  allegato  era  supportato  da
idonea e specifica documentazione. 
    Integrato il contraddittorio, la  resistente  si  costituiva  con
scarna memoria, in fatto non negando assolutamente  quanto  affermato
dalla  ricorrente,  ma   giustificando   il   proprio   comportamento
riportandosi  agli  atti  allegati  (che  poi,  oltre  alla   memoria
difensiva, erano la visura camerale ed il ricorso di fallimento);  in
diritto, eccependo di  essere  un'impresa  agricola,  come  tale  non
soggetta a declaratoria di fallimento.  Ne'  parte  richiedente,  ne'
parte resistente formulava  alcuna  istanza  istruttoria  innanzi  al
Giudice relatore, delegato ex art. 15, comma 6, 1.f., ragion per  cui
il procedimento era riservato alla decisione camerale. 
    2. Com'e' noto, quattro sono i presupposti per  la  dichiarazione
di  fallimento:  a)  la  qualita'  d'imprenditore   commerciale   del
debitore; b) lo stato d'insolvenza dello stesso; c) il superamento di
almeno uno dei limiti dimensionali di cui all'art. 1, comma 2,  l.f.;
d) una debitoria complessiva  pari  ad  almeno  € 30.000,00,  attuale
limite legale ex art. 15, u.c., l.f. 
    «Andando a ritroso» - ed in breve  -,  non  sussiste  chiaramente
alcun'incertezza quanto al punto d), essendo l'importo del contributo
non restituito decisamente superiore. 
    Quanto al punto c), e' sufficiente al collegio  riscontrare  come
la resistente abbia rinunciato del tutto a difendersi  (probabilmente
ritenendo esaustiva  la  sua  natura  non  commerciale),  non  avendo
allegato alcunche', si' venendo meno (oltre che al  disposto  di  cui
all'art. 15, comma 4, l.f.) all'onere  probatorio  di  dimostrare  di
possedere  i  requisiti  di  «non  fallibilita'»,  ex  art. 1   l.f.:
comportamento che legittima il  Tribunale  a  ritenere  acclarati  il
superamento dei limiti dimensionali. 
    Quanto al punto b), le argomentazioni della  resistente  appaiono
chiaramente pretestuose, inidonee a far  ritenere  «giustificata»  la
mancata  restituzione   del   contributo,   id   est   del   relativo
inadempimento: cio', unitamente agli altri  elementi  allegati  dalla
ricorrente (parziale cessione attivita', visura immobiliare negativa)
concreta il requisito di cui all'art. 5 1.f. 
    Per potersi dichiarare il fallimento e', quindi,  necessario  che
la Cera Fish s.r.l. sia un imprenditore commerciale. 
    I pochi elementi inducono, invece, ad escludere che la resistente
rientri nell'alveo  dell'impresa  commerciale:  oltre  all'iscrizione
presso la Camera di commercio industria artigianato e agricoltura  di
Napoli  come  impresa  agricola,  avvalora  la  relativa  presunzione
l'oggetto sociale (attivita' della pesca, dell'allevamento  ittico  e
del commercio di prodotti ittici all'ingrosso e al  dettaglio)  e  la
causale del contributo richiesto. 
    In  tal  senso,  l'oggetto  dell'impresa  si   mostra   requisito
insuperabile ai  fini  della  declaratoria  di  fallimento,  altresi'
mostrando tutta la sua rilevanza ai fini  della  presente  ordinanza,
giacche'   sussistenti   i   restanti   presupposti   normativi   per
l'accoglimento del ricorso dell'Amministrazione provinciale. 
    3. Quanto alla non manifesta  infondatezza  di  cui  all'art.  23
della 1. 11-3-1953 n. 87, e' opinione del collegio che l'art. 1 l.f.,
nel non consentire la sottoposizione alle disposizioni sul fallimento
degli   imprenditori   agricoli   (e   dei   soggetti    equiparati),
consentendola ai soli imprenditori commerciali, si ponga in contrasto
con l'art. 3  della  Costituzione  e,  piu'  precisamente,  con  quel
criterio   ermeneutico    normalmente    utilizzato    dalla    Corte
costituzionale, riassumibile nel principio di ragionevolezza, per cui
un   diverso   trattamento   deve   trovare   una   reale   «ragione»
giustificatrice, imponendo l'eguaglianza formale - di  cui  al  comma
primo dell'art. 3 cost. - di trattare in modo  uguale  le  situazioni
ragionevolmente eguali e in modo diverso le situazioni realmente -  e
non solo apparentemente - diverse (cd.  divieto  di  parificazioni  e
distinzioni irragionevoli). 
    In tal senso, e' opinione del Tribunale che la scelta legislativa
di (continuare ad) escludere dal novero dell'area della  fallibilita'
l'impresa  ovvero  l'imprenditore  avente  come  oggetto  l'attivita'
agricola non sia piu' razionale, ponendosi,  pertanto,  in  conflitto
costituzionale, nei termini che ora si esporranno. 
    3.1. Al riguardo, nel contesto delle recenti riforme del  diritto
delle procedure concorsuali non ha  avuto  luogo  l'estensione  della
relativa disciplina alle  imprese  aventi  oggetto  non  commerciale,
nonostante detta opzione fosse stata anche profilata. 
    L'auspicio, del quale era pregna la dottrina dominante,  non  era
motivato dalla semplice esigenza formale di allineare la legislazione
italiana a quelle degli ordinamenti stranieri  (europei  e  non),  ma
trovava  la   sua   causale   principale   nella   antistoricita'   e
nell'irrazionalita'  della  scelta,  nel  senso  che   l'imprenditore
agricolo, per come «ridisegnato»  dal  legislatore  del  2001  (e  da
quello posteriore) non «meritava» piu' detta esenzione, tanto piu' in
considerazione  dei  nuovi   limiti   dimensionali,   necessari   per
sottoporre  al  fallimento  e  al  concordato  preventivo  lo  stesso
imprenditore commerciale (sotto  il  vigore  della  precedente  legge
fallimentare,   ma   dopo   le   modifiche   normative    riguardanti
l'imprenditore agricolo, autorevole dottrina sosteneva come «A fronte
di  questo  ampliamento  della  nozione  di   imprenditore   agricolo
l'esenzione dal fallimento non  sembra  allora  piu'  giustificata  e
dalla  ormai  prossima  riforma  della  legge  fallimentare   e'   da
attendersi che anche gli imprenditori agricoli verranno  assoggettati
a procedura concorsuale, con  la  sola  esclusione  -  come  per  gli
imprenditori commerciali - di quelli di modeste dimensioni, cioe' dei
piccoli imprenditori»: ossia, oggi puo' dirsi, di quelli non aventi i
relativi   requisiti    dimensionali).    Storicamente    l'esenzione
dell'imprenditore  agricolo  e'  stata  spiegata  variamente,  ma  in
particolare due erano le tesi a sostegno, l'una  facente  riferimento
al doppio rischio al quale e'  assoggettato  chi  coltiva  il  fondo;
l'altra relativa alle minori esigenze di tutela del credito. 
    Da un lato, infatti, si evidenziava come l'imprenditore  agricolo
fosse sottoposto  sia  al  rischio  economico,  tipico  di  qualsiasi
attivita'  produttiva,  sia  al  rischio  ambientale  (o   naturale),
derivante, per  l'appunto,  dall'influenza  dei  fattori  naturali  o
ambientali, e come tale umanamente non governabile; 
        dall'altro, dalla minima diffusione del  ricorso  al  credito
per  il  funzionamento  delle  imprese  agricole   e,   quindi,   dai
consequenziali riflessi prodotti dall'eventuale dissesto dell'impresa
agricola sulla dialettica economica. 
    Non e' revocabile in dubbio come cio' appartenga al passato e  ad
un «altro»  imprenditore  agricolo  (all'epoca  della  codificazione,
infatti, l'unica coltivazione possibile  era  solo  quella  naturale,
vale a dire quella praticata sul fondo). 
    Progresso tecnologico e rilevante industrializzazione  sono  dati
di fatto tangibili, sicche', da un lato,  il  rischio  ambientale  e'
stato ridotto quasi del tutto,  mentre,  dall'altro,  il  ricorso  al
credito  e'  pratica  sempre  piu'  diffusa;  vieppiu',  il   rischio
ambientale   risulta   decisamente   ridimensionato   dall'evoluzione
progressiva  dei  metodi  di  produzione  e   dall'attenuazione   del
collegamento delle attivita' con  il  fondo,  mentre  e'  altrettanto
indubitabile  l'avvicinamento  fra  impresa  agricola  e  commerciale
relativamente   alle   dimensioni   organizzative   ed   ai   profili
patrimoniali e finanziari (per la qual cosa, in dottrina, ma anche  -
e soprattutto - per la nuova veste  giuridica  data  all'imprenditore
agricolo, si e' scritto come  l'esonero  de  quo  sollevi  «piu'  che
legittime perplessita'» ovvero «di  una  sempre  minore  razionalita'
della  scelta  di  sottrarre  al  fallimento  le  imprese  agricole»,
giungendo  alla  laconica   affermazione   di   «una   ingiustificata
disparita' di trattamento fra gli operatori economici»). 
    3.2. L'esenzione de qua poteva avere una sua giustificazione fino
alla definizione normativa data  dall'art.  2135  c.c.  come  vigente
prima della modifica attuata con l'art. 1 del d.lgs. 18 maggio  2001,
n. 228: il concreto collegamento con lo sfruttamento del fondo,  che,
per  costante  opzione   ermeneutica   giurisprudenziale,   connotava
l'attivita' agricola e la  limitazione  delle  attivita'  connesse  a
quelle  di  trasformazione  o  alienazione  dei   prodotti   agricoli
rientranti   nel   normale   esercizio   dell'agricoltura,   potevano
giustificare l'asserzione che il rischio di ampliare  l'insolvenza  e
coinvolgere un numero rilevante di soggetti fosse sicuramente  minore
nella crisi delle imprese agricole (rispetto a quella commerciale). 
    Con il citato decreto legislativo, e' noto, l'art. 2135  c.c.  e'
stato (quasi) radicalmente riscritto, ossia  l'imprenditore  agricolo
e' stato normativamente trasformato, giacche' della vecchia norma  e'
rimasta  la  sola  definizione  d'imprenditore  agricolo   principale
(quella di cui al primo comma), mentre per il resto tutto e'  mutato,
essendo stato superato il criterio della limitazione delle  attivita'
connesse a quelle di alienazione e trasformazione  dei  prodotti  del
fondo, per includervi le attivita' dirette alla fornitura di  beni  o
servizi, nonche' abbandonato (o, al piu', fortemente  ridimensionato)
il criterio della riconducibilita' di  tali  attivita'  all'esercizio
normale dell'agricoltura. 
    L'impatto normativo si e' rivelato, orbene,  «devastante»  avendo
eliminato  i  caratteri  che  per  piu'   di   sessant'anni   avevano
contraddistinto l'impresa  agricola,  impremendole  un  carattere  di
commercialita', per alcuni tratti indistinguibile dall'impresa avente
oggetto commerciale. 
    Prescindendo dalla sostituzione di «bestiame»  con  «animali»  di
cui al primo comma della norma, con la quale il legislatore ha inteso
troncare qualsiasi discussione, accademica e giurisprudenziale, circa
l'individuazione delle specie animali da  far  rientrare  nell'ambito
dell'attivita' agricola principale (solo bestiame da  carne,  lavoro,
latte e lana ovvero anche da pelliccia e allevamento), si'  mostrando
di non voler porre limiti a ritenere  attivita'  agricola  principale
ogni tipo di allevamento  di  animali,  e'  a  dirsi  che  una  prima
commistione  con  un'attivita'  esclusivamente   commerciale   appare
derivare dall'aggiunta, di cui al secondo comma  della  norma,  della
locuzione «o possono utilizzare»: in sostanza,  il  legislatore,  nel
descrivere e individuare  le  attivita'  agricole  principali  ne  ha
eliminato una delle  fondamenta,  cioe'  l'indispensabilita'  che  la
coltivazione del fondo, la selvicoltura e  l'allevamento  di  animali
debbano svolgersi sul fondo  (si'  giungendo  all'ossimoro  che  puo'
coltivarsi un fondo senza necessariamente utilizzarlo). 
    Il  che  equivale  a  dire,  quanto  alle  prime  due   attivita'
principali, che non e' piu' necessario che il fondo assuma  il  ruolo
di fattore produttivo, cosi' come si  e'  sempre  richiesto,  potendo
assurgere a mero strumento di conservazione delle piante. 
    Sono,  pertanto,  agricole  (e  non  industriali),   le   colture
praticate fuori del fondo, sicche' rientrano  nel  paradigma  di  cui
all'art. 2135  c.c.  quelle  attivita'  rese  possibili  da  tecniche
riproducenti  artificialmente,  all'interno   di   stabilimenti,   le
condizioni necessarie per lo sviluppo e il fruttificare dei  vegetali
(in tal senso, rimane impresa agricola anche se, ad  es.,  la  pianta
affonda le radici non nella terra, ma  in  soluzioni  chimiche  o  se
temperatura, umidita' e luce risultano regolate in modo artificiale). 
    La scelta legislativa, dunque, parifica la  coltura  tradizionale
(o naturale) e quella artificiale (che ricava gli  stessi  frutti  al
riparo dal rischio ambientale e con la possibilita' di accelerare  il
naturale ciclo riproduttivo), benche' le stesse siano ontologicamente
ed  economicamente   diverse,   rendendo,   ovviamente,   irrilevante
qualsiasi accertamento sul punto in sede istruttoria 
    3.3. Anche  la  parcellizzazione  di  tali  attivita',  non  piu'
doverosamente dirette alla cura ed allo sviluppo di un  intero  ciclo
biologico, ma  limitate  ad  una  sola  «fase  necessaria  del  ciclo
vegetale ed animale», comporta la qualifica di imprenditore  agricolo
anche per attivita'  che  una  volta  erano  chiaramente  considerate
commerciali  (si  pensi,  ad  es.,  a  chi  si  limita  ad  attendere
all'incubazione  di  uova  ed  alla  nascita  dei  pulcini,  per  poi
immetterli  sul  mercato  senza  attendere  che  diventino  polli  o,
successivamente, capponi, galli o galline ovaiole). 
    3.4. L'esenzione appare ancora piu' irrazionale in relazione alle
attivita' connesse, cosi' come individuate nel  «nuovo»  terzo  comma
dell'art. 2135 c.c. 
    Anteriormente alla modifica normativa era pacifico che per aversi
connessione era indispensabile che ricorressero un aspetto soggettivo
ed uno oggettivo, in forza dei quali era necessario, quanto al primo,
l'identita'  tra  la  persona  che  esercitava  l'attivita'  agricola
principale  e  quella  connessa  (tant'e'  che,  ad  es.,   non   era
considerato imprenditore agricolo  chi  trasformava  olive  da  altri
prodotte); quanto al secondo, era necessario  che  l'attivita'  fosse
collegata  al  fondo,   nel   senso   della   sua   accessorieta'   e
strumentalita'. 
    E' ritenuto ora imprenditore agricolo, invece,  anche  colui  che
manipola,  conserva,  trasforma,  commercializza  o   valorizza   (?)
prodotti che non rientrino  nell'esercizio  normale  dell'agricoltura
(cosi' come prima  previsto  relativamente  alle  sole  attivita'  di
trasformazione   e   alienazione   dei   prodotti)   ma   che   siano
prevalentemente (e  non  piu',  si  ripete,  «normalmente»)  ottenuti
dall'esercizio dell'attivita' agricola principale. 
    Con la nuova  disciplina,  infatti,  il  richiamo  all'«esercizio
normale dell'agricoltura» e' stato sostituito con il  criterio  della
«prevalenza» nell'esercizio  dell'attivita'  connessa,  dei  prodotti
ottenuti dal proprio fondo, bosco o  allevamento  rispetto  a  quelli
acquisiti da  terzi:  criterio  che,  e'  noto,  a  causa  della  sua
ontologica  evanescenza,  ha  dato  storicamente  pessima  prova  nel
delineare il perimetro del piccolo imprenditore (si' da «costringere»
il legislatore fallimentare ad abbandonarlo) e che,  inevitabilmente,
e' destinato a riverberare la sua ambiguita' in  ordine  al  concreto
riscontro dell'attivita' agricola per connessione. 
    Il  venir  meno  della  «normalita'»  consente  ora  di  ritenere
connessa un'attivita'  che  sarebbe  stata  considerata  senza  alcun
dubbio come commerciale (ad es., l'attivita' di macellazione,  finora
considerata  commerciale,  puo'  rientrare  nell'agricoltura  se  gli
animali  macellati  sono   stati   allevati   prevalentemente   [sic]
nell'azienda agricola): in sostanza, conservato l'aspetto soggettivo,
e' venuto meno quello oggettivo in quanto i prodotti da manipolare...
(etc.)  non  devono  piu'   provenire   necessariamente   dal   fondo
dell'imprenditore principale; il che  significa  che  possono  essere
trasformati... (etc.) anche prodotti provenienti da  altri  fondi  o,
perche' no, acquistati al mercato! 
    4. Sempre che non si voglia ritenere - cosa della quale dubita il
Tribunale - che l'art. 2135 c.c. non sia piu' in vigore, quanto  meno
relativamente all'imprenditore agricolo principale, per  l'intervento
del d.lgs. 29 marzo 2004 n. 99, il che avrebbe fatto  venir  meno  la
rilevanza della questione ai fini della  costituzionalita',  potendo,
in tal caso, il Collegio addivenire alla dichiarazione di fallimento. 
    Ci si spiega. Il citato decreto (art. 1) ha previsto, per  quanto
qui interessa,  che  le  societa'  (di  persone,  cooperative  e)  di
capitali sono considerate imprenditori agricoli professionali quando,
oltre  a  prevedere  lo  statuto  come  oggetto  sociale  l'esercizio
esclusivo delle attivita' agricole di cui all'art. 2135 c.c.,  almeno
un amministratore, nel caso di societa' di capitali, sia in  possesso
della qualifica di imprenditore agricolo  professionale  (IAP),  tale
essendo colui che dedica alle attivita' agricole di cui all'art. 2135
c.c. almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo, ricavando
dalle  stesse  almeno  l'omogenea  percentuale  del  proprio  reddito
globale (oltre a possedere conoscenze e competenze  professionali  ai
sensi dell'art. 5 del reg. (CE) n. 1257/1999 del  Consiglio,  del  17
maggio 1999). 
    Sennonche' il comma 5-quater dell'art. 1 del decreto in questione
ha statuito che «Qualunque  riferimento  nella  legislazione  vigente
all'imprenditore agricolo a titolo  principale  si  intende  riferito
all'imprenditore agricolo professionale, come definito  nel  presente
articolo». 
    Il Tribunale non ritiene che da tale  norma  possa  desumersi  la
sostituzione dell'IAP in luogo di quello a  titolo  principale  (come
ipotizzato da  autorevole  dottrina),  giacche'  sarebbe  stato  piu'
semplice modificare nuovamente l'art. 2135 c.c. e che il  legislatore
abbia,  invece,   inserito   una   nuova   ed   ulteriore   qualifica
imprenditoriale. 
    5. La circostanza, infine, che  l'attivita'  sociale  della  Cera
Fish  s.r.l.  sia  piu'  propriamente  quella  d'imprenditore  ittico
appare, ai nostri fini, assolutamente irrilevante, giacche', ai sensi
dell'art.  1,  comma  5,  d.lgs.  18  maggio  2001  (Orientamento   e
modernizzazione del  settore  della  pesca  e  dell'acquacoltura...),
l'imprenditore  ittico  e'   equiparato   all'imprenditore   agricolo
(equiparazione vieppiu' avvalorata dalla gia' vista sostituzione  del
bestiame in animali di cui all'art. 2135 c.c.). 
    6. Prescindendo, in conclusione, anche dalle concrete difficolta'
che l'evanescenza  dei  concetti  menzionati  comporterebbe  in  sede
d'istruttoria prefallimentare, con  quanto  di  conseguenza,  e',  in
definitiva, opinione  del  Tribunale,  per  quanto  argomentato,  che
l'imprenditore  agricolo,  quale  tipico  soggetto  economico,  debba
avere, ai fini concorsuali, la  stessa  disciplina  dell'imprenditore
commerciale, non sussistendo piu' le ragioni storiche e (soprattutto)
normative per perpetuare la relativa esenzione